Il doppio diverso di Silvia Mancini, edito da 96 rue de-La Fontaine Edizioni, è un thriller psicologico classico che fin dal titolo mi ha ricordato per alcuni aspetti, Kafka e la sua adorata tematica del Doppelganger. Attenzione però, classico non è sinonimo per forza di negativo. In questo caso tengo a sottolineare di come rappresenti un punto a suo favore.
La costruzione del romanzo, sebbene non sia troppo originale, verte su basi solide e abbastanza ben costruite. Si respira un’aria tetra, malsana nella capitale francese, dove si svolge l’intera vicenda. Ambienti chiusi, spesso claustrofobici. Pochi personaggi che ruotano attorno alla tematica terribile della morte. Come scritto in precedenza, l’atmosfera mi ha ricordato molto il Castello di Kafka nonché i romanzi gotici ambientati nelle città dell’est. Lo stile dell’autrice è diretto, conciso. Frasi brevi, quasi scritte col fiatone: come se il tempo dei protagonisti a disposizione fosse poco, nel tentativo estremo di rincorrere i propri fantasmi e degli altri.
Una vicenda di violenza che si mescola a tematiche nere, come l’esoterismo e rituali antichi che riescono a trasmettere al lettore inerme, un senso di ansia e un buon crescendo di paura. La morsa, pagina dopo pagina, è reale e tangibile.
La nostra protagonista, Eloise, è un poliziotto tutto d’un pezzo. Professionale, ligia al dovere, poche volte riesce a staccare la spina. La cattura del feroce serial killer diventa quasi un’ossessione per lei. Ad aiutarla in questo compito, il detective Bonnet, un don Giovanni dai metodi non troppo ortodossi. Insieme formano una coppia già scoppiata in partenza, e sicuramente la scelta si rivela azzeccata da parte della nostra autrice.
Il lettore infatti, oltre a voler conoscere le motivazioni del nostro killer, è incuriosito nel carpire dove andrà a finire il rapporto tra i due protagonisti. Dovranno mettere da parte i loro contrasti se vogliono raggiungere il loro obiettivo. Ci riusciranno? E’ nella scelta di raccontare ben altro di una semplice inchiesta, che Il doppio diverso, risulta vincente. Poiché attorno all’indagine, Silvia Mancini approfondisce egregiamente l’introspezione dei personaggi, sballottando il lettore tra passato e presente, in maniera chiara e ordinata.
L’autrice strizza l’occhio a delle tematiche che si vede le stanno a cuore; l’amore per l’arte e la passione per Parigi. Certo, a mio modesto avviso, sarebbe stato opportuno descrivere quest’ultima meglio, in maniera più approfondita. Infatti sono pochi i riferimenti alla città dell’amour, con un’analisi troppo spartana del quartiere del Marais. La scelta è secondo me sbagliata, una città del genere, vale fiumi d’inchiostro. Ma la visione minimalista della Mancini è il prolungamento della sua concezione; ridurre all’osso le descrizioni servono per mettere in risalto altro, come abbiamo accennato.
Da fan di Battiato quale sono, non ho potuto non riconoscere l’omaggio della scrittrice a uno delle menti più geniali del mondo dell’arte: stiamo parlando del guru, Alejandro Jodorowsky. Impossibile resistere al fascino dei suoi film, dei suoi fumetti e di tutta la sua monumentale ed eterogenea opera. Un piccolo clin d’oeil che i lettori colti apprezzeranno.
Il coup de théâtre finale può sorprendere ma la brevità dello scritto non lo valorizza appieno, anche perché l’autrice lascia (volutamente?) degli indizi che sono abbastanza chiari. Sicuramente il romanzo andava allungato maggiormente, ma anche qui, leggendo i ringraziamenti finali dell’autrice, si capisce la volontà di scrivere un romanzo che possegga i crismi di un’opera teatrale o di una sceneggiatura. Peccato perché l’approfondimento avrebbe portato punti in più, a un’opera prima, che rimane comunque, più che sufficiente e fa ben sperare per il futuro.
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